"UN’OPERA MANOSCRITTA DEL FRUSINATE DOMENICO RICCIOTTI"
DOMENICO ANTONIO GUGLIELMI
Una delle famiglie più illustri e onuste di benemerenze in Frosinone è la famiglia Guglielmi. Più avanti faremo il nome dei due patrioti Carlo e Giampietro.
Nel corso di questa storia ci siamo incontrati spesso con qualche Guglielmi. Si potrebbe certamente scrivere una buona monografia su questa e su altre primarie famiglie frusinati.
Ma non è il nostro compito. Vogliamo però ricordare il nome di colui che fu il primo Gonfaloniere, ossia sindaco della città nella ricostituzione dello Stato Pontificio, alla caduta dell’impero napoleonico. Intendiamo riferirci al cav. Domenico Antonio Guglielmi.
Anzitutto bisogna distinguerlo dall’omonimo Domenico Antonio, che era sindaco al momento della presa di Roma (1870), coronamento dell’unità d’Italia.
Non sappiamo quando la famiglia Guglielmi si sia trapiantata a Frosinone. Il Crollalanza ci parla dei suoi diversi rami a incominciare dal più antico, quello di Pesaro (1229), poi di quelli di Siena (1386), di Bologna e dl Roma, che è il più recente. Però non accenna al ramo di Frosinone.
Non andiamo errati affermando che i Guglielmi siano venuti nella nostra città, nel rilancio urbano che segui la nefasta guerra del 1556. Infatti incontriamo il loro nome fin dal principio del 1600.
A suo luogo abbiamo notato che nel 1676, quando il vescovo disciplinò l’amministrazione delle elemosine che affluivano per la costruzione del santuario della Madonna della Neve, il Capo - Priore, ossia sindaco, era Giampietro Guglielmi e un altro della famiglia, Carlo Guglielmi, fece parte del gruppo dei dodici deputati.
Ma, soffermandoci sul nostro Domenico Antonio, ricorderemo quanto segue. Egli nacque a Frosinone il 15 luglio 1764 da Guglielmo Guglielmi e da Anna Vittoria De Sanctis. Suo padre aveva estese e importanti relazioni. Infatti troviamo che furono padrini di battesimo del nostro Domenico Antonio i principi di Satriano, Don Filippo Ravaschieri Fieschi di Bari, di Zavagni, e Donna Eleonora Ventimiglia, rappresentati da Stanislao Ciceroni e da Fulvia Ciceroni Puleggi.
Ricorderemo poi che l’episodio miracoloso della Madonna del Buon Consiglio è accaduto in casa Guglielmi e che il nostro Domenico Antonio offrì scudi 300.
Egli fu teste di tutti gli avvenimenti succedutisi dalla fine del 1700 fino ai tempi della restaurazione. Fu amministratore camerale, ossia raccoglieva le tasse e le corrisposte che i sudditi pagavano al sovrano versando alla così detta Camera Apostolica.
Appena eletto sindaco di Frosinone, dopo la dominazione napoleonica, affrontò il problema del restauro delle strade urbane, come risulta dagli atti dell’amministrazione.
Nel 1817 fu eletto governatore della Confraternita della Morte, che era una specie di assessorato della carità, col manifesto convincimento degli elettori che sarebbe riuscito a «riorganizzarla e a farla risorgere al primiero splendore».
Le speranze infatti non furono deluse. Egli si acquistò meriti in tutti i campi: in quello religioso, perché fece ricostruire la chiesa di S. Sebastiano, fuori porta Napoli, dove c’erano duemila fedeli che, senza questa comodità, non sarebbero andati alla Messa; nel settore civico, perché fece erigere l’ospedale vicino l’attuale via di S. Martino e nei pressi dell’allora esistente chiesetta di S. Croce.
Se vogliamo, egli è anche un sano laicista. Infatti ottenne dalla Santa Sede l’indulto per poter assegnare all’ospedale sette benefici ecclesiastici, che originariamente servivano per fornire le prebende ad altrettanti canonici. Di questi benefici, sei erano fondati presso la chiesa di S. Benedetto e uno presso la chiesa di S. Sebastiano, di cui egli stesso aveva sollecitato la ricostruzione.
Il nostro Domenico Antonio persuase Maria Teresa Spinelli a venire a Frosinone per la fondazione della scuola pubblica femminile e dette la possibilità ai Missionari di San Gaspare del Bufalo di aprire una loro casa nella nostra città.
Uno di questi missionari, D. Ubaldo Ambrosini, parlando del nostro Gueglielmi si espresse in questi termini «gloria e decoro di questi città la di cui memoria si avrà sempre in eterna benedizione... non altro aveva a cuore che il bene dei suoi Concittadini».
In effetti il nome di Domenico Antonio Guglielmi è ancora vivo a Frosinone mediante la via a lui dedicata. Egli morì il 18 giugno 1824.
FILIPPO RENNA
Dovremmo parlare ora degli Scifelli, Iannini, dei Renna e di altri che nel sec. XIX si alternavano al gonfalonierato della città, ma ci contentiamo di fare un solo nominativo: Filippo Renna.
Lo facciamo soprattutto per ricordare che egli aveva una tipografia a Frosinone. La maggior parte degli stampati riguardanti la visita del Benvenuti (1824 - 1826) furono editi dal Renna e troviamo che il 10 maggio 1826 gli furono pagati scudi 399,45 dalla delegazione, per tali lavori. Si trattava di Protocolli, Giornali d’introito ed esito, Libro per le amministrazioni comunali, Bollettario per le Casse Comunali, Tabelle per conti preventivi e consuntivi, Reparti per fuocatico, Lettere circolari. In quelle stampe troviamo che Frosinone nel 1826 faceva 7.076 abitanti.
Filippo Renna morì a 60 anni circa, il 4 febbraio 1837, e fu sepolto nella chiesa della Madonna della Neve.
IGNAZIO PARADISI
Nacque a Frosinone da Girolamo Paradisi, nobile frusinate, e da Flavia Fantini, romana, il 31 luglio 1771. Nel battesimo, amministratogli lo stesso giorno dal can. Filippo Vespasiani, ebbe i nomi di Ignazio, Giacinto, Boezio, Francesco, Pasquale.
Parla di questo scrittore ed educatore il Tancredi nel cenno storico su Frosinone che premette alla sua opera su S. Ormisda e S. Silverio.
Egli ci fa sapere che il Paradisi insegnò al collegio romano e fu anche maestro di Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro imperatore di Francia. Sappiamo però che questi frequentò il collegio di Loreto e non quello romano. Quindi bisogna concludere che il nostro concittadino insegnò anche nel collegio della cittadina marchigiana.
Del Paradisi conosciamo due opere, direttamente, e altre due, indirettamente, per le citazioni che egli stesso fa.
Già dalla semplice lettura dei titoli delle opere date alle stampe, si può comprendere su quale campo si impegnò il nostro Paradisi.
Il suo tempo fu quello della nascita delle teorie evoluzioniste. Una di queste va sotto il nome di evoluzionismo trasformistico, in quanto sosteneva che l’evoluzione del mondo avviene con salti di qualità e di specie, compiuti dalle sole forze cosmiche.
Il nostro Paradisi prese posizione contro questo trasformismo evoluzionistico.
Egli evidenziava la necessità di ammettere qualche altra forza che trascenda quelle insite della natura, ossia quella del Creatore.
Il Paradisi quindi fu uno dei difensori del creazionismo. La prima delle opere citate incomincia così: «Non vi ha forse argomento, che tanto abbia mai sempre esercitato le menti, e riscaldato l’immaginazione degli uomini, quanto l’investigare l’origine, e i principi delle cose».
Fatto poi un breve cenno alla storia delle cosmogonie e alla rivelazione mosaica, viene alle teorie moderne del suo tempo, per fermarsi alle scoperte geologiche e all’ipotesi del poligenismo umano.
Accenna alla storia d’Italia del Bossi che fa gli «Aborigini una generazione d’uomini, che nulla avesse a far con tutto il rimanente dell’uman genere».
Ricorda che il Cuvier nel suo discorso ha dimostrato che la storia degli aborigeni, indipendenti gli uni agli altri, è stata inventata da spirito nazionalistico.
Rigetta poi la teoria del mondo eterno del Dupuis sostenuta dal Francoeur nella sua «Uranographie» stampata a Parigi nel 1821. Ritiene le rivoluzioni operatesi nella terra si possano circoscrivere in un arco di tempo di 6000 anni.
Poi passa a studiare i caratteri delle rivoluzioni (o trasformazioni) che «ci mettono in stato di facilmente distinguere una rivoluzione dall'altra».
Divide tali caratteri in tre ordini e corrispondenti a tre periodi della terra: quello precedente l'apparizione della vita (azoica), quello corrispondente alle nostre ere geologiche e quello attuale.
Lo studio del nostro Paradisi è interessante, oltre tutto, come documento storico. Infatti vi si scorge un attaccamento, oggi superato, alla lettera dell'esamerone biblico. Da questo attaccamento nascevano le sue ipotesi per concordare la lettera del Genesi con le affermazioni della scienza del suo tempo. Così, per esempio, spiegava le rivoluzioni (le ere) geologiche, come l'esecuzione della punizione di Dio ad Adamo, nella quale pronunciò anche la maledizione della terra.
Naturalmente oggi una simile spiegazione fa sorridere. Però contiene anche un’ipotesi che potrebbe essere valida e cioè che l’uomo fosse anteriore non solo a quelli che noi chiamiamo periodi diluviale e glaciale ma anche alle precedenti ere geologiche.
Del resto molto di quello che affermava allora la scienza è stato superato.
Quindi è valida per i suoi tempi l’affermazione che il Paradisi pone a conclusione delle «Osservazioni»: «Concludiamo - Tutti i sistemi inventati dai filosofi antichi e moderni per spiegare l’origine e i principi delle cose sono capricciosi, ridicoli e assurdi», perché non sono riusciti a indicare le cause dei fenomeni.
Ma detta espressione ci fa anche capire che egli aveva affrontato l’argomento, più sotto l’aspetto filosofico, che quello propriamente scientifico.
Le ultime sue parole rivelano il suo animo di credente: «La natura ben studiata, e ben conosciuta, ci farà sempre meglio ammirare le opere grandiose e sublimi del supremo suo Autore, e a lui rendere la gloria che gli è dovuta: Confitemini Domino qui fecit mirabilia magna solus, replebitur maiestate eius omnis terra. Fiat, fiat».
La seconda opera citata «Riflessioni» sostanzialmente ricalca le stesse idee. Quindi ci dispensiamo dal farne l’analisi.
Concludendo, affermiamo che questo figlio di Frosinone, ignorato anche dal Dizionario biografico del Pocini, non meritava di essere relegato nel dimenticatoio.
GIUSEPPE DE MATTHAEIS
Non andiamo errati affermando che a Frosinone il nome che più risuona sulle labbra di tuttiè quello di Giuseppe De Matthaeis.
A lui infatti è dedicato il piazzale più movimentato della città e il punto di confluenza delle principali arterie della zona. Ma anche a Roma vi è il ricordo del nostro De Matthaeis. Una strada è intestata al suo nome. E’ quella che va da Via Catania a Via D. Morichini. Dunque non solo merita che sia ricordato in questi lineamenti storici, ma è doveroso guardare a lui con il massimo interesse.
Il nostro Giuseppe è il secondo dei sette figli nati a Frosinone dal Dott. Giacomo e dalla sig.ra Rosa Tagnani. Essi sono: Camillo (nato il 9 gennaio 1775); Giuseppe, Antonio, Pasquale, di cui parliamo (nato il 23 maggio 1777); Maria, Domenica, Geltrude (5 agosto 1779); Cecilia, Francesca, Arcangela (27 settembre 1781); Tommaso, Giovanni, Luigi (7 marzo 1787); Vincenzo, Agostino, Nicola (19 settembre 1789); Domenico, Ludovico, Tommaso (25 luglio 1793).
Il padre del nostro Giuseppe era nativo di Nettuno ma si domiciliò e si sposò a Frosinone, dove esercitava la professione di medico «fisico».
Giuseppe De Matthaeis dunque nacque nell’anno in cui Pio VI col Motu Proprio del 14 gennaio 1777 iniziò il prosciugamento delle Paludi Pontine.
Noi vediamo nella vita e nelle opere del nostro personaggio un’ansia di miglioramento e di bonifica civica e morale.
Egli respirò e traspirò l’aria di rinnovamento che soffiò sotto papa Braschi e che poi con la rivoluzione francese divenne un’esigenza di massa.
I meriti del nostro Giuseppe De Matthaeis li troviamo, brevemente, ma efficacemente espressi nell’epigrafe che il nipote Giacomo fece incidere sul sepolcro, che ancora oggi può visitarsi nella basilica di S. Lorenzo in Lucina a Roma. Noi la diamo così tradotta:
«Qui riposa in pace
Giuseppe De Matthaeis frusinate
Rinomatissimo tra i medici del suo tempo
Membro del collegio degli
Archiatri dell’Urbe
Ebbe in Roma la cattedra della clinica medica
Tosto che Pio VII la fondò
La illustrò con la scienza, onestà e fede
Confermò la fama del suo ingegno
Con le opere date alle stampe
Fu aggregato nei principali istituti europei
Meritò dovunque le lodi dei dotti
E’ stato rapito li 27 settembre 1857».
Il Puccinotti lo definì «vero patriarca dell’arte salutare». Egli però, come può vedersi dalle pubblicazioni riportate, non si occupò solo di medicina, ma anche di storia e di archeologia.
Il suo Saggio Istorico su Frosinone, non solo è il primo tentativo di scrivere la storia della nostra città, ma anche finora il più completo e il migliore. I moderni potranno non accettare alcune sue ipotesi o tesi. Bisogna però ricordare che quando scriveva il nostro De Matthaeis non esistevano ancora tanti sussidi di studio, come i Regesti Pontifici pubblicati dagli studiosi e tanti repertori bibliografici.
Inoltre bisogna aggiungere che non basta dissentire, ma bisogna dimostrare con argomenti validi perché non si può accettare qualche affermazione del nostro storico.
Comunque, noi vogliamo rilevare che le ipotesi avanzate dal De Matthaeis su certe questioni, di cui non possedeva sufficiente documentazione, hanno colto nel segno. Tale, per esempio, è quella riguardante la sede in Frosinone del rettore della provincia e quella della prima origine degli statuti comunali della città.
Lorenzo Re, professore di archeologia nell’Archiginnasio Romano della Sapienza, aveva scritto sull’opera del primo storico frusinate: «ho dovuto ammirarvi l’ordine luminoso, la scelta erudizione e la sana critica che presenta in ogni sua parte».
Si tratta dunque di un lavoro serio e ponderato. Altro merito da riconoscere al nostro De Matthaeis è quello di un concreto e fattivo amor patrio.
E’ l’illustre Carlo Fea a riconoscerlo: «particolarmente l’amore della patria, che ha fatto intraprendere al ch. Autore una storia, la quale mancava di un paese, capo di Provincia, che pure la meritava quanto altri meno illustri e popolati».
Ma oltre ai meriti medici, letterari e storici, ci sembra che il nostro De Matthaeis ne abbia avuto un altro sul piano della vita politica.
Egli, a nostro avviso, è stato un moderato che ha saputo accogliere le nuove idee nazionali e dare il suo nome alla Repubblica Romana del 1849, senza per questo scagliarsi contro il papato e la religione, come avveniva allora in larghissimi strati.
Il contenuto della sua ultima operetta, potrà far riflettere a qualcuno che, senza sua colpa, è cresciuto con certe prevenzioni di altri tempi.
Nel discorso «Sopra il bene e i favori compartiti dai Romani Pontefici alla medicina». afferma: «Ora l’argomento prefissomi è così ricco e fecondo per se stesso, che io debbo attendere più a restringermi che a diffondermi, più a scegliere che ad ampliare i materiali del mio discorso». Non intende parlare del vantaggio venuto alla medicina con la predicazione della carità. Neppure intende parlare del bene che i Papi hanno compiuto verso gli archiatri pontifici.
Restringe il suo discorso su «il bene e li favori compartiti dai Romani Pontefici all’arte medica, promuovendone l’avanzamento e lo splendore per tutte le vie...»
Poi mette in evidenza:
1) La creazione degli ospedali «Creati in sulle prime questi stabilimenti dal solo spirito della carità cristiana».
2) L'impulso dato alle indagini anatomiche.
3) L'istituzione di un collegio medico, la fondazione di cattedre pubbliche di medicina «e la regolarità degli studi e dell'esercizio medico tutto si deve ad essi, e molto da essi appresero gli stranieri».
4) Le pubblicazioni di opere di medicina, «traduzioni di antichi scrittori greci di medicina...». «Le prime versioni di greco in latino d’Ippocrate, di Dioscoride, di Teofrasto si debbono ai Romani Pontefici».
Segue un excursus storico sulle benemerenze dei Papi e conclude: «Possiamo dunque conchludere dalle cose sin qua esposte, che dal risorgimento delle scienze e della medicina in Europa sino ai nostri giorni, sia più difficile trovare un Romano Pontefice che non abbia fatto alcun bene alle arti salutari di quello che trovarne amplissimi e numerosi promotori, fautori, benefattori».
Chiudiamo questo breve cenno ricordando che la famiglia De Matthaeis fu tra le prime di Frosinone ad accogliere i contenuti sani delle idee rivoluzionarie. Infatti il padre del nostro Giuseppe, Giacomo, fu console nella Repubblica Romana francese, il fratello Michele fu ricevitore del Demanio a Frosinone durante l’impero napoleonico e il nostro Giuseppe dette anche lui la sua adesione. La stessa cosa faranno i due fratelli nei riguardi della Repubblica Romana nel 1849. Aggiungiamo anche che nel 1847 Michele fu Commissario provinciale e Giuseppe è qualificato come «famigerato», dal Tancredi, nonostante che lo esalti come studioso di grande merito.
"Le prime pagine del volumetto"
"IL POEMETTO STORICO SU FROSINONE"
Dopo aver parlato del De Matthaeis non possiamo fare a meno di ricordare il poemetto latino del Pellisieri pubblicato nel 1823.
Il De Matthaeis, è vero, non è stato il primo a scrivere la storia di Frosinone. L'abbiamo già ricordato. Prima di lui ci fu l'avvocato Giuseppe Bompiani, che scrisse in latino nel 1745. Però egli ampliò, corresse alcune tesi e, con la sua autorità scientifica, dette alla sua opera un sigillo di indiscutibile valore.
Tutto quello che egli scrisse nel suo Saggio Istorico fu recepito nel breve con il quale Leone XII il 9 dicembre 1828 riconobbe e confermò a Frosinone il titolo di città.
La sua opera dunque merita la gratitudine dei frusinati.
Tra gli effetti che essa produsse bisogna anche annoverare la composizione del già nominato poemetto latino.
Anche di questo dobbiamo affermare in parte quello che abbiamo asserito nei riguardi del poemetto italiano del ‘700. Forse gli scrittori non vi troveranno meriti letterari. Però possiede un grande valore storico.
Lo si legga e si converrà su questo asserto. Vi si trovano tutte le notizie che gli storici hanno tramandato su Frosinone. Ad illustrazione dei versi sono riportate le frasi dei detti storici, e se ne riferiscono più di quante ne hanno citate molti autori che hanno scritto di proposito sulla storia del capoluogo ciociaro.
Il poemetto è dedicato a Mons. Giuseppe Zacchia, Delegato della Provincia di Campagna e Marittima. E’ diviso in cinque parti, o capitoli, per un totale di 498 versi. La frase dello Strabone, citata nella prefazione, è riportata nella traduzione latina e quindi, in luogo del «rei» greco, c’è lo «alluitur» latino. Per questo motivo gli scrittori hanno pensato che Frosinone fosse bagnato e non chiuso dal fiume Cosa.
Ed ora sia permesso un breve curricolo di questo autore che tanto amò Frosinone da comporre un poemetto in suo onore. Se non frusinate di nascita, lo è di affetto.
"NICOLA RICCIOTTI E IL SUO MESSAGGIO"
La restaurazione aggiornata dello Stato Pontificio fu turbata e, in seguito, arrestata dalla reazione contro la minacciata insurrezione del 1821.
Le truppe austriache il 7 marzo di quell’anno sconfissero presso Rieti le forze rivoluzionarie trasbordate nello Stato della Chiesa e poco dopo entrarono a Napoli per ristabilirvi il precedente regime.
Gli accennati eventi, unitamente a quelli del Nord, debbono considerarsi come l’avvio, sul terreno operativo, della storia dell’unità e dell’indipendenza d’Italia.
Ma essi sono anche gli episodi a cui è legato il nostro illustre concittadino Nicola Ricciotti. Egli infatti entra in scena in occasione della rivoluzione napolitana (luglio 1820 - marzo 1821).
Pensiamo dunque di parlare di lui a questo punto. Egli nacque a Frosinone l’11 giugno 1797 da Luigi e Angela Ferrini. Suo padre non venne da fuori nella nostra città, come il padre di Angeloni Luigi, ma era nato in essa e aveva preso anche i nomi dei due santi patroni.
Il nostro Nicola sposò con Rosaria Reali di Filippo l’8 giugno 1817 nella chiesa di S. Maria, alla presenza dei testimoni D. Giuseppe Erizi e D. Clemente Gabrielli. Gli benedisse il matrimonio il canonico curato D. Vincenzo Pio Spaziani, che è anche amico di famiglia.
Il 19 agosto 1818 gli nacque Francesco Luigi Vincenzo, che gli fu battezzato dal suddetto D. Spaziani. Il 3 agosto 1820 gli nacque un altro figlio, a cui fu amministrato il battesimo in casa, appena nato, «perché vi era pericolo di morte», ma poi in chiesa furono supplite le cerimonie prescritte dal sacramento.
Dopo lo studio dello Zirizzotti possiamo ricostruire con maggiore esattezza il curricolo politico del nostro eroico patriota. Noi lo sintetizziamo brevemente.
Egli aveva imparato a leggere e scrivere nella scuola comunale, che allora era tenuta da un sacerdote. Apprese poi ed esercitò, come il padre, l’arte del sarto. Quindi si dette al commercio ed infine aprì un caffè in Via della Pescheria.
All’epoca della rivoluzione napolitana (1820 - 1821) venne a contatto delle aspirazioni patriottiche, attraverso il fermento di uomini e di idee che essa fece nascere e introdusse nella Ciociaria.
Quando nel gennaio del 1821 Nicola Fabrizi da Torrice fondò a Frosinone la vendita dei carbonari, egli vi fu nominato maestro ricevitore o cassiere. Il 10 aprile 1821 Pio VII proibì le società segrete nello Stato Pontificio. Nicola si confessò e abiurò nelle mani del curato di S. Maria, D. Vincenzo Pio Spaziani, in occasione della Pasqua, sperando che avrebbe avuto solo «come penitenza, qualche giorno di esercizi spirituali». Ma il nuovo Delegato apostolico della provincia Giuseppe Zacchia, per l’intromissione del suo predecessore Mons, Brencoli, lo inviò alle carceri nuove di Roma per il giudizio, col solo privilegio di poter andare a piede libero.
Lo stesso Delegato con lettera del 16 giugno avvertì il Segretario di Stato del prossimo arrivo a Roma del nostro Nicola.
Il 18 marzo 1822 fu condannato a morte, ma la pena gli fu commutata in ergastolo. Il 1° luglio venne tradotto nel forte di Civitacastellana, dove assistette alla morte del fratello Giacomo, avvenuta il 2 giugno 1827. Il 3 marzo 1831 fu messo in libertà ed inviato in esilio in Corsica, insieme ai compagni di attività, di condanna e di pena, tra cui, Gaetano Giansanti della contrada Madonna della Neve e il nominato Nicola Fabrizi da Torrice.
Da questo momento gli si apre dinanzi un campo di operosità di più vasto raggio. In Corsica conosce il Mazzini e si mette a servizio della Giovane Italia. Da quell’isola, prima della fine del 1831, sbarca in Toscana con l’intento di sostenere e allargare l’insurrezione della Romagna. Passa poi a Cesena e Ancona. Qui viene nominato capo della Colonna Mobile.
In questa circostanza dà prova della sua onestà e moderazione, impedendo stragi inutili e organizzando manifestazioni ordinate.
Per questa sua moderazione viene sospettato che non sia di autentica fede carbonara e fatto oggetto di calunnie. L’episodio dimostra che il nostro Nicolino, come lo chiamavano gli amici e i famigliari, non era un delinquente, un terrorista, un incendiaro, ma un convinto patriota che fidava sulla bontà stessa della causa.
Dalle Marche passa in Francia, dove s’incontra con Garibaldi, il quale conservò sempre di lui una affettuosa memoria, per cui volle dare il nome di Ricciotti ad un suo figlio.
Dopo una seconda spedizione in Italia, andò nel 1835 a combattere in Spagna per lo steso comune ideale di libertà. Quivi fu promosso capitano e poi colonnello di fanteria, arricchendosi così di esperienze e qualità militari.
Nell’agosto 1843 ritornò in Francia, il 3 gennaio dell’anno seguente si recò a Londra, per ripartire il 21 febbraio successivo. Rientrato a Parigi, fu inviato da Mazzini in Italia per suscitarvi un’insurrezione, ma a Marsiglia fu arrestato dalla polizia francese.
Nell’aprile del 1844 è a Londra, alla fine di maggio dello stesso anno a Malta, e, ai primi di giugno, a Corfù, presso i fratelli Bandiera.
Il 12 giugno 1844 salpa, assieme ai compagni, da quell’isola e, il 16, tutti mettono piede sulla costa calabra di Crotone. Il compito di questa spedizione sarebbe dovuto essere quello di accendere un moto generale verso l’unità e l’indipendenza della patria.
Purtroppo il disegno fallì. Il governo di Napoli era stato avvertito di questa spedizione e quindi catturò i patrioti, li processò, li condannò a morte e il 25 luglio 1844 li fece fucilare presso Cosenza nel Vallone di Rovito.
Nicola Ricciotti vi cadde colpito da una palla, che gli spense in gola la parola. Però se non si udì più la sua voce sensibile, fu udito più largamente e con maggiore vigore il suo messaggio politico: vivere, combattere, soffrire, e morire per un ideale di libertà, di unità e di pace.
Egli che fu «di bell’aspetto, gentile nei modi e nella persona», egli che sempre portava sul volto «Lo stesso sorriso di pace con se stesso e con gli altri», più che sul bronzo di Piazza della Libertà, resterà scolpito nel cuore dei frusinati.
Ma insieme a Nicola, dobbiamo ricordare i due fratelli, patrioti anche loro: Domenico e Giacomo.
Domenico Ricciotti
Nacque a Frosinone il 10 giugno 1790 e nel battesimo, amministratogli tre giorni dopo, gli furono imposti anche i nomi di Antonio e Silverio
Si sposò con Maria Rispoli ed ebbe da lei le seguenti figlie prima del 1821: Domenica Saveria (16 giugno 1808), Felicia (13 agosto 1811), Domenica Vittoria (26 marzo 1814), Angela Vittoria (6 aprile 1816), Maria Vittoria (5 settembre 1818), Rosa Preziosa (21 settembre 1820).
Esercitò la professione di calzolaio. Egli quindi e i suoi fratelli appartengono alla classe di quel popolano che il 19 febbraio 1798 fece scrosciare il battimano dinanzi l’albero della libertà.
Fu sempre vicino al fratello Nicola, appoggiandolo e favorendolo come poteva. Subì anche egli il processo politico e scontò otto anni di carcere tra Civitacastellana e Castel Sant'Angelo in Roma.
Dopo la scarcerazione si mantenne in contatto con i cospiratori politici, s’iscrisse alla Giovane Italia e fece propaganda patriottica mantenendo i contatti con gli attivisti a Roma, dove aveva posto la sua residenza.
Giacomo Ricciotti
Nacque il 7 febbraio 1794 e fu battezzato all’indomani nella chiesa di San Benedetto con i nomi di Giacomo, Leopoldo, Romualdo. Sposò con Chiara Zangrilli il 9 agosto 1815, facendo da testimoni D. Luigi e D. Carlo De Carolis. Ebbe i seguenti figli: Maria Carmina Rosalba (16 luglio 1816); Francesco Giambattista, Vincenzo (4 luglio 1817); Rosa (22 ottobre 1818); Luigi, Francesco Vincenzo (27 febbraio 1820); Marìa Rosalba (31 maggio 1821).
Condannato per motivi politici, dopo la cospirazione del 1821, fu tradotto con i fratelli al carcere di Civitacastellana, dove morì il 2 giugno 1827 alle ore 23 e mezzo. Il certificato medico, a firma di Camillo Todini, dichiara che decedette per «pernicioso colera». Il cappellano partecipò la morte al segretario di Stato il 4 giugno e questi, con lettera del 9 giugno 1827, diretta al Delegato di Frosinone, comunicò la luttuosa notizia alla famiglia.
La Famiglia Ricciotti
Avremmo dovuto parlare di essa prima ancora di presentare Nicola e i fratelli. Abbiamo però preferito prima guardare i frutti e poi rivolgere gli occhi alla pianta.
Anzitutto dobbiamo precisare che la famiglia Ricciotti è frusinate da antica data. La troviamo già nel ‘600. Infatti il 6 novembre 1675, giovedì, D. Giuseppe Danesi, economo spirituale di S. Maria, battezza Carlo Francesco Ricciotti di Marco e di Margherita, nato il lunedì precedente; mentre il 18 marzo 1677 viene battezzato Filippo Antonio Ricciotti, figlio dei suddetti, e funge da padrino Pietro Corridori.
Il 29 agosto 1691 incontriamo il sacerdote Don Sisto Ricciotti che battezza Francesco Antonio Ricciotti di Domenico e Ortensia. Le citazioni potrebbero moltiplicarsi. Anche nel primo quarantennio del ‘700, di cui a Santa Maria manca il registro dei battesimi, si trovano dei Ricciotti. Sono Domenico e Filippo, sposati rispettivamente con Maria e Angela.
Nella seconda metà del detto secolo i nominativi si accrescono. Ma noi ci fermiamo solo sul nonno dei nostri patrioti, Domenico Ricciotti sposato con Elisabetta.
Di questi conosciamo il nome di sette figli: Angelo Ludovico (8 novembre 1751), Silverio Michele (21 giugno 1753), Carlotta M. Antonia (5 novembre 1754), e poi Carmina, Filippo, Gaetano, Luigi (22 ottobre 1763) il padre dei nostri patrioti e, in ultimo, Caterina.
Ci sono poi altre linee della famiglia Ricciotti. Ma non è possibile fare ancora dei nomi. Crediamo bene rilevare che nella seconda metà del ‘700 a Frosinone c’era il notaio Domenico Ricciotti. Ma non abbiamo potuto appurare se sia il nonno dei patrioti, ovvero un individuo di altra linea della stessa famiglia.
Comunque, è da notare che il signor Luigi, padre del nostro Nicola e fratelli, quantunque sarto, nei registri della chiesa è qualificato con termini di persona distinta e, come abbiamo già ricordato, gli vengono celebrati i funerali «more nobilium».
"UN’OPERA MANOSCRITTA DEL FRUSINATE DOMENICO RICCIOTTI"
Dobbiamo segnalare al lettore un’opera scritta da un frusinate e di cui s’ignora l’esistenza.
Si tratta del «Saggio Politico - Religioso» di Domenico Ricciotti.
Non pensiamo che l’autore sia il fratello del patriota Nicola Ricciotti e patriota anche lui. Infatti questi era calzolaio e quindi, oltre che per la sua opinione politica, non ci sembra che potesse scrivere un’opera del genere.
Ci sembra di dovere escludere anche Domenico Ricciotti di Filippo e fratello di Pietro e di Bernardino.
Questi infatti, quantunque legale e poi funzionario alla Direzione Generale di Polizia in Roma, era ancora ragazzo quando fu presentato il volume suddetto.
Crediamo quindi che si tratti di Domenico Ricciotti, figlio di Francesco e di Francesca Signorini, nato il 19 giugno 1783.
Questi aveva cinque anni più del fratello di Nicola e, all’epoca in cui presentò il suo manoscritto, era quarantatreenne.
Comunque, nella speranza di riprendere le ricerche intorno alla sua vita e, soprattutto, per il rinvenimento del suo manoscritto, qui ci basti rilevare che tra gli scrittori di Frosinone bisogna annoverare anche Domenico Ricciotti, procugino del patriota.
La notizia non può essere messa in dubbio perché si rileva dalla lettera originale con la quale l’autore chiede al Segretario di Stato l’autorizzazione a stampare il primo tomo della sua opera.
Oltre a pubblicare la fotocopia di questa lettera, la riproduciamo in nota per facilitare la lettura.
-(Il conoscere le basi, su di cui poggia ogni Stato, è la scienza la più utile all’uman genere. La Religion del Vangelo, che perfezionò i diritti di natura e delle Genti, diè a conoscere ai Sovrani Legislatori, che dall’influsso di quella pendeva la fermezza dei loro Troni.
Codeste verità si leggono registrate nelle Storie di tutti i Secoli. L’opera, che l’Oratore Domenico Ricciotti da Frosinone si è proposto di pubblicare colle stampe, tratta di Religione e Stato.
Ella tende a formare dei buoni cittadini e dei sudditi obbedienti, e affezionati al loro Sovrano, e potrebbe apportare molto giovamento alle attuali situazioni di Europa.
Sa l’Eminenza vostra Rev.ma che le Nazioni del Nord nel quinto secolo in mezzo ai furori dell’eccidio, divennero umane allorchè conobbero la Religione di Gesù Cristo. Tale è la potenza della Religione sul cuore dell’uomo.
Il primo tomo di quest’opera, che si umilia, è stato già approvato da due Membri del Consiglio di Revisione per la facoltà Legale, e Teologica, giusta le sovrane disposizioni; perciò supplica l’Em. Vostra Rev.ma a voler concorrere col suo suffragio per quello che riguarda il politico. Che ecc... ;
Domenico Ricciotti da Frosinone Autore dell’Opera umiliata All’Em. e Rev.ma principe il Sig. Cardinal Bernetti Segretario di Stato di N.S.)-
"IL GINNASIO DI FROSINONE"
Il ginnasio di Frosinone ha la sua prima origine nella seduta che il consiglio comunale tenne il 20 settembre 1818.
In essa fu deliberato di aggiungere lo studio della filosofia e quindi fu anche deciso di preparare un «nuovo sistema d’istruzione».
A questo scopo fu creata una commissione col compito di elaborare il nuovo piano. La commissione era costituita dai signori Matteo Bouchard, capitano Nicola Riva Andreotti e Pacifico Sebastianelli, medico. Essa ultimò presto il suo compito, però il progetto non poté andare in esecuzione per diverse difficoltà, tra cui quella dei locali e degli insegnanti.
I comuni desideri poterono diventare realtà sotto la delegazione starordinaria del Benvenuti (2 luglio 1824 - estate 1826).
Questi si rese benemerito nella provincia di Campagna e Marittima, non solo per aver estirpato il banditismo di quell’epoca, ma anche per avere incrementato dovunque le scuole.
Il Moroni ci fornisce al riguardo un prospetto sintetico: «avanti la delegazione straordinaria, nelle due provincie erano quarantuno i maestri delle scuole comunali pei maschi e trentatré per le femmine cogli annui onorari di scudi 2.926.
In tempo di detta delegazione i maestri dei maschi furono portati al numero di ottantatré, e le maestre delle femmine a cinquantaquattro coll’annua spesa di scudi 6.089, senza calcolare un aumento che ebbe luogo nel seguente anno».
Furono benemeriti collaboratori Romualdo Guescioli «contabile esimio di Ancona» e Vincenzo Valorani, che fu poi segretario generale della delegazione nella nominata città delle Marche».
In un primo momento gli amministratori avevano pensato di affidare la direzione delle scuole maschili ai PP. Dottrinari, che tanta stima godevano a Pontecorvo, dove avevano una casa con scuole e parrocchia.
Questi però avevano come missione di fare la scuola elementare ai ragazzi del popolo, quindi, quando furono informati dal consigliere Domenico Magg. Cerroni con lettera del 12 luglio 1820 che i nuovi piani di studio prevedevano la scuola che oggi chiamiamo media e ginnasiale, declinarono l’incarico a mezzo del loro procuratore generale P. C. Luigi Vassia, con lettera dell’8 agosto 1820.
Dopo di che il Consiglio Comunale il 10 dicembre 1821 si disimpegnò dai Dottrinari e decise di affidare la direzione delle scuole per mezzo di pubblico concorso.
Naturalmente le persone che maggiormente concorrevano erano i preti, giacché allora la cultura era poco estesa e quasi loro monopolio.
Vi concorrevano anche dai vicini paesi e città. Della vicina Alatri insegnò grammatica e rettorica a Frosinone Don Vincenzo Sarra, direttore spirituale della fondatrice delle scuole femminili Maria Teresa Spinelli e il fratello Domenico, che il De Persiis chiama «diligente e colto scrittore di agiografia».
Giacché è venuto sotto la penna il nome, molto noto tra gli studiosi, del De Persiis, tralasciamo di fare altri nominativi e veniamo a colui che gli fu professore e che dette, a nostro parere, il maggior lustro al ginnasio di Frosinone:
GIUSEPPE TANCREDI
Quantunque questo esimio e fecondo scrittore non sia frusinate, non è possibile ignorarlo in una storia di Frosinone, sia perché vi ha insegnato per 12 anni e sia perché molte sue pubblicazioni sono dedicate alla nostra città.
Nato a Collepardo il 2 ottobre 1829 da Francesco Antonio e Maria Costanza Galli, compì gli studi di letteratura italiana, latina e greca nel seminario vescovile di Alatri e quelli di filosofia, teologia e giurisprudenza nell’Università di Roma, facendosi apprezzare per l’intelligenza e l’impegno.
Terminati gli studi e, ordinatosi sacerdote, insegnò lettere classiche per sei anni nel seminario di Alatri; passò poi per concorso al Liceo pubblico di Frosinone, dove insegnò per 12 anni le stesse materie, fino al 1871, quando, con regolare concorso, passò ad insegnare al collegio della Pace, in Roma, fino alla morte avvenuta a Collepardo il 9 novembre 1874.
Formò al sapere e alla virtù una larga schiera di giovani che poi si distinsero nella vita religiosa e civile. Compose molte opere, di cui diverse videro la stampa e molte altre rimasero manoscritte. Per quanto si riferisce a Frosinone, importantissimo è il volume sui Santi Ormisda e Silverio, di una validità ancora attuale, e significativi gli opuscoli stampati sotto il nome del Ginnasio frusinate.
Interessante sarebbe stata l’opera che aveva preparato sul Concilio di Trento, con la quale avrebbe pubblicato 483 lettere scritte dai cardinali che intervennero a quel consesso, ma il 24 aprile 1870 fu acquistata da Pio IX per L. 1000 e così non vide la luce. Il nome di questo illustre ciociaro non compare nel Dizionario Biografico dei Ciociari.
Padre Ignazio BARBAGALLO Agostiniano Scalzo
(FROSINONE - Lineamenti storici dalle origini ai nostri giorni) - "Editrice Frusinate 1975"
Per le citazioni storiche, la bibliografia ed altro, si rimanda ad una consultazione diretta dell'opera.